Didattica individualizzata o interazione sociale?
Oggi è finalmente riconosciuto che la scuola è costituita da alunni con modi di apprendere specifici e non standardizzabili. La normativa sui BES (Bisogni Educativi Speciali) affermando che
“In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana, ecc.”
esorta esplicitamente gli insegnanti ad adottare una didattica in grado di soddisfare tutte queste richieste.
Tuttavia è di non poco conto la difficoltà degli insegnanti che tentano ogni giorno di diversificare le metodologie e talvolta anche la programmazione stessa delle attività in relazione alle specifiche esigenze di apprendimento dei singoli studenti.
Questo tentativo, quelle rare volte in cui riesce, va a discapito dell’armonia del gruppo classe, isolando alcuni soggetti, che spesso rappresentano poco meno della metà degli alunni di una classe. Non aiutano in questo senso neppure i libri scolastici attualmente utilizzati, con le loro molteplici sottoversioni per ciascun caso specifico, stile ricette per tutti i gusti. Questo approccio, nel tentativo di fornire un supporto valido e specifico per ciascun caso, finisce con l’inibire il rapporto tra pari poiché rende difficile per gli alunni anche solo confrontarsi sui compiti a casa o condividere il libro durante la lezione. In pratica viene meno la relazione interpersonale e la socialità, che invece rappresentano un aspetto fondamentale e caratteristico dell’apprendimento.
Ma come si potrebbe attuare una didattica individualizzata e personalizzata che al contempo non ostacoli la relazione ed il confronto tra i discenti?
Un giorno a scuola ho notato l’alunno Rossi, solitamente alle prese con notevoli difficoltà nell’esposizione orale, spiegare graficamente ad una alunna con un deficit cognitivo medio la prospettiva intuitiva utilizzata da Giotto nei suoi quadri. Mi colpì molto la riuscita didattica di quella relazione e da allora mi sono focalizzata nel cercare altre piccole situazioni simili, notando, ad esempio, l’alunno Verdi, usualmente in difficoltà ad intervenire durante le lezioni, che in modo eccellente chiariva le riflessioni esplicitate dal suo compagno di banco durante un confronto aperto.
La risposta dunque potrebbe pervenire da un radicale cambiamento di prospettiva: se, invece di cercare ricette specifiche per ogni gusto, provassimo a mescolare questi gusti?
L’approccio potrebbe essere una sorta di cooperative learning costante ed esteso a tutto il gruppo classe, in cui i ruoli, invece di essere preimpostati, vengono definiti nel corso dell’anno dagli alunni stessi attraverso una riflessione ed una ricerca sulle proprie caratteristiche di apprendimento. Nella mia attuale classe ci sarebbe, ad esempio, “il rappresentatore grafico della lezione” (che attraverso uno schema o un disegno rappresenta graficamente alla lavagna la lezione affrontata), il “mediatore tra le riflessioni del suo compagno di banco e il resto della classe”, ecc.
Se è vero che, come Gardner afferma, ci sono 9 tipi di intelligenza e che le caratteristiche di ogni individuo dipendono dal risultato delle combinazioni di alcune di esse, è scontato che non potrebbero essere i cinque o sei ruoli usati nel comune coopertive learning a soddisfare i profili possibili di tutti gli alunni di una classe.
L’obiettivo diventerebbe dunque da un lato l’apprendimento individualizzato, ossia la ricerca da parte di ognuno delle caratteristiche di apprendimento (definizione ruoli) in linea con il proprio stile cognitivo; dall’altro la possibilità di usufruire delle abilità dell’altro nel proprio processo di apprendimento, attraverso un costante rapporto di cooperazione. Le nove intelligenze di Gadner , assieme alle loro molteplici combinazioni, su un banco di scuola a disposizione di tutti, al fine di supportare i limiti e potenziare le abilità e le competenze di ognuno.
Vygotskij affermava che
i processi cognitivi si attivano maggiormente quando il bambino sta interagendo con persone del suo ambiente e in cooperazione con i suoi compagni
sarebbe dunque un peccato non sfruttare al massimo questo aspetto!